L'art. 133, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 che stabilisce che «[i]l provvedimento che pone a carico della parte soccombente non ammessa al patrocinio [a spese dello Stato] la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato».
Si censura tale norma nella parte in cui, qualora risulti vittoriosa la parte non abbiente ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, il giudice civile quantifichi le spese processuali dovute a quest’ultimo dal soccombente «secondo i criteri ordinari, in misura piena e quindi superiore rispetto a quella dei compensi dovuti dallo Stato [stesso] al difensore del non abbiente».
Sarebbero violati, oltre l'art. 76 Cost., perché tale previsione contrasterebbe con l’art. 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998), anche gli artt. 3, 23, 53 e 111, secondo comma, Cost.
Ritiene in proposito il rimettente, riportando numerose pronunce in proposito della Corte di Cassazione, che l’obbligo del pagamento di una somma, «corrispondente al valore “pieno” degli onorari», superiore a quella dovuta dallo Stato al difensore della parte non abbiente costituisca, per la differenza tra i due importi, un «prelievo coattivo», traducendosi in una obbligazione di natura tributaria.
Costituitisi l’Avvocatura generale e l'INAIL, trattandosi di giudizio in cui è parte tale istituto.
Il Giudice delle leggi rileva innanzitutto la inammissibilità della censura formulata in riferimento all’art. 23 Cost., per omessa motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale.
L’ordinanza di rimessione, infatti, è tutta incentrata sulla considerazione per cui si sarebbe in presenza di un’obbligazione di natura tributaria, mentre omette qualsiasi specifica argomentazione a sostegno del denunciato contrasto con il parametro in discorso, il quale, pertanto, risulta evocato in maniera generica e assertiva (ex plurimis, sentenza n. 161 del 2023).
La questione di legittimità costituzionale per l’eccesso di delega sollevata dal rimettente non è fondata in quanto essa non investe la disposizione in sé considerata, ma la norma che il diritto vivente vi avrebbe tratto, attraverso un mutamento di orientamento a partire dal 2018, stabilendo che il giudice civile condanna la parte soccombente senza «il limite della coincidenza» con i «compensi anticipati dall’Erario all’avvocato della parte gratuitamente difesa».
Il Giudice chiarisce che, in ipotesi, la violazione dell’art. 76 Cost. ben potrebbe manifestarsi anche in riferimento a una norma ricavata dal diritto vivente, dal momento che sarebbe comunque addebitabile al legislatore delegato l’emanazione di una disposizione che, per il suo tenore, legittima un’interpretazione in contrasto con i principi e i criteri direttivi stabiliti dal legislatore delegante. Tale ipotesi, tuttavia, non si verifica nel caso di specie, perché la norma censurata non determina il suddetto contrasto.
Come si è chiarito, secondo la giurisprudenza di legittimità che si è consolidata dopo il 2018, il giudice civile non deve quantificare in misura uguale le somme dovute, ai sensi dell’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, dal soccombente allo Stato e quelle dovute, ai sensi degli artt. 82, comma 1, e 130, comma 1, del medesimo d.P.R., dallo Stato stesso al difensore del non abbiente.
In effetto, “l’art. 15-sexies, comma 2, lettera a), della legge 30 luglio 1990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti) – come novellata dalla legge 29 marzo 2001, n. 134 (Modifiche alla legge 30 luglio 1990, n. 217, recante istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), che ha esteso il patrocinio a spese dello Stato a tutti i giudizi civili, nonché a quelli amministrativi e agli affari di volontaria giurisdizione – disponeva, infatti, che l’ammissione a tale istituto facesse, tra l’altro, sorgere in capo allo Stato il diritto di «ripetizione degli onorari dalla parte contraria, condannata nelle spese».
Anche se il termine «ripetizione» poteva far ipotizzare che questa dovesse essere limitata a quanto in concreto sborsato dallo Stato, la disposizione in esame, tuttavia, non imponeva tale conclusione, poiché non prevedeva espressamente che il giudice fosse tenuto a quantificare tali onorari nella misura ridotta della metà dal successivo art. 15-quaterdecies, comma 1, della medesima legge n. 217 del 1990. Nemmeno l’art. 15-sexiesdecies, comma 1, obbligava a tale coincidenza tra la quantificazione in sede di condanna alle spese e la liquidazione a favore del difensore della parte ammessa al beneficio”.
Infine, le questioni sollevate dal giudice a quo in riferimento agli artt. 3, 53 e 111, secondo comma, Cost. sono basate sulla comune premessa di un’asserita natura tributaria del «prelievo coattivo» che subirebbe il soccombente nel caso in cui la controparte vittoriosa sia stata ammessa al patrocinio gratuito.
La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile attiene alla regola generale victus victori stabilita dall’art. 91, primo comma, cod. proc. civ., secondo cui «[i]l giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa» (sentenza n. 77 del 2018).
Nel caso particolare in cui la parte vittoriosa è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, la regolamentazione delle spese di lite attiene quindi a un «rapport[o] distinto[o] e autonom[o]» (sentenza n. 109 del 2022) da quello che sorge per effetto dell’ammissione stessa; quest’ultimo, a cui le parti del giudizio rimangono totalmente estranee, si instaura direttamente tra il difensore del beneficiario del patrocinio e lo Stato, mentre il primo si instaura inter partes, tra soccombente e vincitore, con il giudice che applica gli ordinari criteri di liquidazione delle spese, senza che il medesimo soccombente subisca, a differenza di quanto sostiene il rimettente, alcuna ulteriore effettiva decurtazione.
L’istituto della rifusione delle spese è, pertanto, concettualmente estraneo alla logica propria dell’obbligazione tributaria, che implica, invece, una «effettiva decurtazione patrimoniale» attraverso un «prelievo coattivo, finalizzato al concorso alle pubbliche spese e posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (ex plurimus, sentenza n. 128 del 2022).
La Corte ha, quindi, dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113, sollevata, in riferimento all’art. 23 della Costituzione e non fondate le questioni di legittimità costituzionale di detto articolo n riferimento agli artt. 3, 53, 76 e 111, secondo comma, Cost.