Corte Costituzionale sent n. 223 pubbl 3 nov 2022
Il giudice rimettente riferisce che dal certificato penale dell’imputato era emerso che, già alla data dell’ammissione al beneficio, egli era stato condannato in via definitiva (con sentenza dello stesso Tribunale di Firenze del 18 aprile 2018, divenuta irrevocabile il 3 settembre 2018) per due reati ex art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, aggravati ai sensi dell’art. 80, comma 1, lettere a) e g), del medesimo testo unico.
Le questioni di legittimità costituzionale investono la fattispecie del reato di cui al comma 5 dell’art. 73 (e non già di tutti i reati da tale disposizione contemplati), aggravata dal successivo art. 80 tout court, secondo la testuale previsione della disposizione censurata, e non già solo quella aggravata dalle specifiche circostanze di cui alle lettere a) e g) del comma 1 dello stesso art. 80.
la ratio della norma censurata, alla stregua di quanto sottolineato dalla sentenza n. 139 del 2010 di questa Corte, risiede nell’«evitare che soggetti in possesso di ingenti ricchezze, acquisite con le attività delittuose […], possano paradossalmente fruire del beneficio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato, per dettato costituzionale (art. 24, terzo comma) ai “non abbienti”». Tuttavia, detta ratio legis non sussisterebbe almeno rispetto ad alcune fattispecie aggravate del reato previsto e punito dall’art. 73 t.u. stupefacenti, comprese quelle per le quali era stato condannato l’imputato nel processo a quo, ossia quella del comma 5 di tale disposizione, aggravata ex art. 80, comma 1, lettere a) e g), t.u. stupefacenti (cessione di sostanze stupefacenti «di lieve entità» a soggetti minori di età in prossimità delle scuole).
Rilevanza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, dovendo il giudice rimettente fare applicazione della disposizione censurata al fine di ritenere la sussistenza, o no, del diritto dell’imputato al patrocinio a spese dello Stato in ragione della mancanza della prova contraria rispetto alla presunzione di superamento del limite reddituale previsto per l’accesso al beneficio, che l’art. 76, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002.
l’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti prevede, oggi, che: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329».
A seguito della novella è ormai consolidato l’assunto secondo il quale la fattispecie prevista dall’art. 73, comma 5, in materia di sostanze stupefacenti, si è trasformata da circostanza attenuante in figura autonoma di reato (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 settembre-9 novembre 2018, n. 51063).
Occorre rilevare che la disposizione censurata, nel prevedere una presunzione di superamento dei limiti di reddito per ottenere il patrocinio a spese dello Stato ove il soggetto richiedente sia stato, in precedenza, condannato in via definitiva per i fatti di reato puniti dall’art. 73 t.u. stupefacenti, in presenza di una delle circostanze aggravanti di cui all’art. 80 del medesimo testo unico, si pone in primo luogo in contrasto, per incoerenza rispetto allo scopo perseguito, con l’art. 3 Cost., nella parte in cui ricomprende nel proprio ambito di applicazione anche i fatti «di lieve entità», di cui al comma 5 dello stesso art. 73.
Le circostanze aggravanti elencate dal comma 1 della disposizione dell'art. 80 – se si connotano, come quelle in rilievo nel giudizio a quo, per la spiccata riprovevolezza della condotta del soggetto agente – non sono ex se suscettibili di incidere sul profitto tratto dall’attività delittuosa.
Il “piccolo spaccio” – quello del comma 5 dell’art. 73 citato – appare spurio e, quand’anche aggravato ai sensi dell’art. 80, è privo dell’idoneità ex se a far presumere un livello di reddito superiore alla (peraltro non esigua) soglia minima dell’art. 76, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002.
Il principio di ragionevolezza è leso «quando si accerti l’esistenza di una irrazionalità intra legem, intesa come contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la disposizione espressa dalla norma censurata» (sentenze n. 195 e n. 6 del 2019; nello stesso senso, più di recente sentenza n. 125 del 2022).
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